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Di Gabriella Lax

Con “Ninfa dormiente”, edito da Longanesi, secondo capitolo delle storie del commissario Teresa Battaglia, Ilaria Tuti bissa il successo di “Fiori sopra l’Inferno”, aggiungendo all’efficacia della trama, alla scrittura scorrevole e appassionante, la capacità di ricerca impeccabile sulle storie delle popolazioni della Val Resia, per creare, con assoluta certezza, un piccolo gioiello nel suo genere. C’è sempre la guerra a fare sentire l’eco (lontano solo temporalmente) i cui effetti si propagano come pedine di un domino fino al presente. Ci sono i luoghi antichi (più che mai), sinistri ed inquietanti, ma tremendamente affascinanti. Il libro rappresenta un passo in avanti nell’indagine psicologica e introspettiva della storia dei suoi personaggi principali. Altri tasselli si scoprono dal passato della protagonista, ormai sessantenne, e del giovane ispettore Marini, il cui ruolo nella vita del commissario si delinea ancora meglio in questo nuovo caso. La scrittrice costruisce un bell’intrigo che nasce da un cold case, da una morte, quella della “ninfa dormiente”, ritratta col sangue in un dipinto oltre settant’anni prima. Le atmosfere tornano a colorarsi di verde cupo, in boschi che nascondono segreti molto più antichi stavolta, segreti che l’antico canto della Terra cela con sé. Parole che solo chi è connesso con la sua intuizione riesce a percepire. E la malattia del commissario, penalizzante per certi versi, al contrario spegne la razionalità e regala una voce ancora più acuta all’istinto che la indirizza verso la giusta direzione per risolvere l’intricata vicenda che nel passato affonda le sue radici insanguinate. In questo romanzo più che mai, il commissario Battaglia è l’emblema della compassione, quella che solo una madre amorevole sa provare. Quell’abbraccio liquido come il potere più grande che ha il femminile: quello di accogliere e di trasformare. Un potere liquido che non investe solo l’ispettore Marini, ma tutta la sua squadra e i nuovi elementi: Bianca la ragazza cieca e Smoky il cane “da scheletri” (ispirati a personaggi reali, confessa l’autrice) che ne entrano a far parte e, dulcis in fundo, il lettore stesso. Sfogliando le pagine del libro il commissario Battaglia non rimane una figura di carta da affidare al comodino, ma una presenza arguta e, soprattutto, confortante. La vedi muoversi, col suo caschetto rosso e i modi non particolarmente agili. Si fa amare il commissario Battaglia di quell’amore tenero e viscerale che solo per una mamma si può provare. Dietro quei modi burberi c’è un cuore palpitante di madre, di una donna che, al contrario, madre non ha potuto e non potrà mai essere. E così, per sua stessa ammissione, negli anni, anche le vittime sono diventate sui figli, persone da restituire alla memoria di altre persone. Ma non solo. Come già accaduto in “Fiori sopra l’Inferno”, c’è un dualismo che caratterizza gli assassini di queste vicende: essi solo in apparenza incarnano la cattiveria, dietro le efferatezze di cui sono capaci c’è sempre una storia vecchia che spinge, che incalza che, in qualche modo, non dà scampo. Non possono essere il male assoluto perché sono leve in un ingranaggio che non hanno le capacità per riuscire a spezzare.

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